Non è passato molto tempo da quando vari autori e studi mostravano, dati alla mano, un marcato declino della violenza nel mondo: le guerre sembravano diminuire e allo stesso tempo aumentavano gli investimenti nelle politiche di prevenzione dei conflitti e della costruzione della pace. Gli ultimi anni hanno però sfatato quest’ottimismo presentandosi come uno dei periodi più violenti degli ultimi decenni, rimettendo dunque in discussione il trend precedente.
Lo stesso continente europeo è coinvolto in vari conflitti armati. Nel 2003, Javier Solana nella sua Strategia di Sicurezza Europea ritraeva l’Europa come “mai stata così prospera, sicura e libera”, puntualizzando che“La violenza della prima metà del XX secolo ha fatto strada a un periodo di pace e stabilità senza precedenti in Europa”. Oggi difficilmente pronuncerebbe le stesse parole. Federica Mogherini, lanciando la discussione sulla nuova strategia globale dell’Unione, ha descritto quello scenario come tramontato e l’orizzonte del mondo presente come connesso, conflittuale e complesso. In questo contesto, molti hanno cominciato ad auspicare un ritorno a politiche di sicurezza militaristiche, dove alla violenza si risponde con nuova violenza. Ma il peacebuilding oggi può raccogliere le sfide descritte dal capo della diplomazia europea e offrire alternative, prospettive e soluzioni.
Per il peacebuilding, connessione significa innanzitutto superare dicotomie tra internazionale e locale. Interventi internazionali non arriveranno a processi di pace duraturi senza un chiaro protagonismo locale. Ownership locale quindi, ma senza mitizzare le società civili locali vedendole come un unicum a sostegno della pace. Le connessioni e gli intrecci sono spesso oltre la nostra immaginazione. E’ locale un’organizzazione di peacebuilding caucasica, con uffici in Georgia, Armenia, Germania e un ufficio volante in Azerbaijan, un vicedirettore dottorando negli Stati Uniti e un altro in Russia? Il lavoro per la “pace di tutti i giorni” richiede una collaborazione che vada oltre le categorie di “locali” e “internazionali” e che si focalizzi, invece, sulla reciprocità e sui risultati.
La conflittualità crescente che si vede dentro e fuori l’Europa presenta molti rischi, ma per il peacebuilding essa offre anche l’opportunità di sviluppare capacità e strumenti civili innovativi e integrati; significa lavorare in un mondo globale sempre più regolato da peace arbitrage – ovvero scelte arbitrarie (e violente) d’intervento internazionale in aree di conflitto – non sottraendosi dai teatri di crisi, ma tenendo fissa una prospettiva a lungo termine mirata a prevenire lo scoppio o la continuazione dei conflitti violenti.
Complessità per il peacebuilding vuol dire accettare la sfida a non semplificare, a non cercare scorciatoie teoriche o pratiche, ma aprirsi invece al confronto, alla diversità, alla specificità di ogni scenario e di ogni contesto; significa altresì facilitare e supportare il dialogo, a cominciare dal rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Significa andare in profondità, per esempio svelando i blocchi sistemici che limitano gli strumenti per la risoluzione dei conflitti. Significa non solo vedere possibili vie di uscita dove altri vedono solo nero, ma anche fornire i mezzi per raggiungerle.
Queste, tra le altre, sono le sfide che oggi raccoglie l’Agenzia per il Peacebuilding (AP) lavorando per la pace, la prevenzione e la trasformazione dei conflitti in un mondo connesso, conflittuale e complesso.